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Il carcere di Rebibbia vive giorni di gelo, con i termosifoni spenti da metà novembre e celle sovraffollate in cui il calore proviene solo dai corpi dei detenuti. L’allarme è stato rilanciato dall’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, oggi detenuto, e confermato dal garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa, che parla di una “situazione al limite”. Il problema tecnico delle caldaie si inserisce in un quadro più ampio di criticità strutturali che riguardano l’intero sistema penitenziario italiano.
Il malfunzionamento dell’impianto di riscaldamento ha reso ancora più difficile il quotidiano a Rebibbia, già provato da anni da un cronico sovraffollamento carceri. Il primo a denunciare pubblicamente il problema è stato Gianni Alemanno, che in una lettera ha raccontato le condizioni nelle celle. «Stiamo morendo dal freddo. Siamo al 23 novembre e i termosifoni sono completamente spenti», ha scritto, sottolineando il rischio sanitario per oltre mille detenuti di Rebibbia.
Anastasìa conferma la gravità della situazione, spiegando che il guasto è avvenuto sin dall’accensione del 15 novembre. Il garante si è attivato per verificare se si sarebbero potuti svolgere controlli preventivi prima dell’avvio stagionale del riscaldamento, e se un collaudo anticipato avrebbe evitato il blocco dell’intero sistema.
Il gelo non riguarda solo le celle di Rebibbia, ma anche la caserma della Polizia penitenziaria, che condivide lo stesso impianto. «Se la caldaia ha un difetto, si blocca tutto il servizio», precisa il garante di Rebibbia, confermando che l’emergenza coinvolge detenuti e agenti.
Se il guasto tecnico di Rebibbia potrà essere risolto entro pochi giorni, il problema più serio resta il sovraffollamento carceri, che a Rebibbia ha raggiunto numeri mai visti negli ultimi anni. Secondo Anastasìa, al 31 ottobre la popolazione detenuta era di 1.621 persone, contro i 1.060 posti regolamentari. Un divario che potrebbe essere aumentato ulteriormente dopo la chiusura degli ingressi a Regina Coeli, conseguente al crollo di un soffitto avvenuto nelle scorse settimane.
Il trasferimento forzato di numerosi detenuti di Rebibbia negli istituti del Lazio ha messo sotto pressione l’intero sistema. Nel carcere di Roma, come altrove, lo spazio è insufficiente e molte sale di socialità sono state trasformate in camerate improvvisate con letti a castello fino al terzo livello. «Le cosiddette terze brande sono ormai la norma», spiega il garante, descrivendo un quadro in cui i luoghi un tempo destinati alle attività ricreative sono stati sacrificati per recuperare spazio abitabile.
Anche Alemanno, in una sua lettera, ha descritto le nuove camerate: letti disposti lungo i muri, materassi arrivati dopo giorni, nessun armadietto, un unico tavolo centrale dove i detenuti devono appoggiare tutte le loro poche cose.
Il sovraffollamento non comporta solo una carenza di spazio fisico, ma anche una diminuzione delle possibilità di inclusione e reinserimento. Nel carcere di Roma, secondo Anastasìa, da settimane le attività pomeridiane sono sospese. La causa è duplice: da un lato una recente circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che richiede l’autorizzazione ministeriale per qualsiasi attività con volontari esterni; dall’altro la persistente carenza di agenti della Polizia penitenziaria, insufficienti per garantire la sicurezza durante i laboratori.
Il garante evidenzia che questa sospensione aggrava il disagio, perché i detenuti trascorrono gran parte della giornata chiusi in cella. Le quattro ore d’aria regolamentari non sono sufficienti a compensare l’assenza di occasioni educative, lavorative e sociali.
Il blocco delle attività impatta anche sulla prevenzione dei suicidi. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, nei mesi scorsi, aveva sostenuto che il sovraffollamento non incide sui suicidi, anzi in alcuni casi permette ai compagni di cella di intervenire. Una posizione criticata da più parti e smentita dal garante. «Chi vuole suicidarsi ci riesce anche con altre persone presenti, basta scegliere il momento giusto», chiarisce Anastasìa, ricordando come la reale criticità sia l’impossibilità del personale di monitorare adeguatamente tutti i detenuti.
Nelle strutture sovraffollate, infatti, il numero di agenti, psicologi ed educatori è commisurato alla capienza regolamentare e non alla popolazione reale. Con centinaia di persone in più, è più facile che una richiesta di aiuto resti senza risposta.
Il governo ha annunciato un piano di edilizia penitenziaria che prevede la creazione di 10.000 nuovi posti entro il 2027. Una prospettiva che, secondo Anastasìa, difficilmente darà risultati concreti nel breve periodo. Il garante ricorda che la capienza è in realtà diminuita negli ultimi anni e cita il caso del nuovo padiglione inaugurato a Civitavecchia: un progetto avviato nel 2010 e completato solo grazie ai fondi PNRR, che impongono scadenze ravvicinate.
«Significa che i nuovi padiglioni entreranno in funzione tra il 2030 e il 2040», avverte il garante. «Nel frattempo, le persone che oggi sono in carcere cosa dovrebbero fare?».
Per affrontare l’emergenza attuale, Anastasìa indica una sola via: un provvedimento di clemenza. «L’unica risposta efficace e immediata è un indulto o un’amnistia», afferma, sostenendo che una riduzione della popolazione detenuta allevierebbe le condizioni di vita sia dei reclusi sia del personale.
Una soluzione, però, politicamente impraticabile secondo l’attuale maggioranza, che teme l’effetto sull’opinione pubblica. «Il populismo penale prevale», commenta il garante. «Eppure un provvedimento di questo tipo sarebbe utile a tutti».
La combinazione di Rebibbia, infrastrutture fragili e sovraffollamento carceri rende urgente una riflessione sul sistema penitenziario italiano. L’emergenza freddo è solo l’ultimo sintomo di un problema strutturale che, secondo il garante, non può essere affrontato senza un intervento immediato.
Scritto da: Matteo Respinti
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