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Aumento pensioni 2026: scatta l’1,4%, le simulazioni Cgil

today1 Dicembre, 2025

Sfondo

Dal 1° gennaio entrerà in vigore l’aumento pensioni 2026, determinato dall’aggiornamento annuale all’inflazione. La percentuale ufficiale è fissata all’1,4%, come stabilito dal decreto del ministero dell’Economia pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 28 novembre. Il provvedimento conferma quanto anticipato nei giorni scorsi e definisce un adeguamento che, secondo Cgil e Spi, risulta però insufficiente a compensare la perdita di potere d’acquisto accumulata negli ultimi due anni. Le simulazioni dei tecnici sindacali mostrano incrementi netti spesso di pochi euro al mese, erosi dalla fiscalità e dalle dinamiche del meccanismo di perequazione.

L’aumento pensioni 2026 segue la variazione della perequazione registrata per il 2025, pari allo 0,8% e già applicata agli assegni a partire dal primo gennaio del prossimo anno. Con la percentuale dell’1,4% prevista per il 2026, si prosegue dunque il percorso di riallineamento ai prezzi, pur in un contesto in cui l’inflazione si è fortemente attenuata rispetto ai picchi del biennio 2022–2023. È proprio quel biennio, tuttavia, a pesare ancora sulle tasche dei pensionati, secondo la Cgil, per via di una rivalutazione giudicata “simbolica” rispetto all’aumento effettivo del costo della vita.

Incrementi molto contenuti: per molti appena 3 euro in più

Secondo i calcoli elaborati dagli uffici previdenziali della Cgil e dello Spi, gli effetti dell’aumento pensioni 2026 saranno molto modesti. Una pensione minima passerà da 616,67 euro a 619,79 euro, con un incremento netto di appena 3,12 euro. Un assegno di 632 euro nel 2025 arriverà a 641 euro, pari a 9 euro in più. Una pensione da 800 euro salirà a 850 euro netti, anch’essa con un aumento di 9 euro.

Incrementi leggermente maggiori sono previsti per le fasce più alte ma restano comunque limitati. Una pensione da mille euro netti, con l’aumento pensioni 2026, aumenterà di 11 euro, mentre un assegno da 1.500 euro lordi, dopo le trattenute, crescerà di 17 euro mensili. La Cgil sostiene che questi aumenti, in rapporto al carico fiscale, lasciano ai pensionati “un impatto reale minimo”, aggravato dall’Irpef e dalle addizionali locali.

La dinamica, spiegano i tecnici, è dovuta anche al meccanismo della perequazione pensioni, che prevede un adeguamento pieno solo fino a quattro volte il minimo, quindi 603,40 euro. Tra le quattro e le cinque volte il minimo la perequazione scende al 90%, mentre oltre le cinque volte si ferma al 75%. A ciò si aggiunge la soglia di esenzione fiscale di 8.500 euro annui, oltre la quale il prelievo Irpef si fa sentire in modo significativo.

Tra 2022 e 2026 un aumento teorico del 16%, che in realtà è del 12–13%

L’analisi della Cgil osserva che l’aumento pensioni 2026 va letto nel quadro dei riallineamenti iniziati nel 2022. Il totale degli incrementi lordi derivanti dalla perequazione in questo periodo è del 16,46%, ma la crescita netta degli assegni si ferma nella maggioranza dei casi al 12–13%. Il divario, secondo i sindacati, riflette il peso della fiscalità che erode gran parte delle rivalutazioni.

I dati riportati mostrano che una pensione lorda di 800 euro nel 2022 passa a 932 euro lordi nel 2026, con una crescita teorica del 16,46%, ma il netto passa da 757 a 850 euro, cioè +12,27%. Per un assegno lordo di 1.000 euro, il netto sale da 898 a 1.014 euro, quindi +12,93%. Anche nelle fasce più elevate il fenomeno si ripete: un importo lordo di 2.000 euro passa a 2.329 euro, ma il netto cresce solo da 1.591 a 1.824 euro (+14,68%).

La Cgil sottolinea che la pressione fiscale complessiva è aumentata. Per una pensione lorda di 800 euro, l’aliquota media è salita dal 5,38% all’8,78% tra il 2022 e il 2026; per una pensione da 1.000 euro si passa dal 10,19% al 12,91%, mentre per un assegno lordo di 1.500 euro si sale dal 17,07% al 18,42%. Di fatto, secondo i sindacati, una parte importante dell’adeguamento all’inflazione viene assorbita dal fisco, impedendo all’aumento pensioni 2026 di compensare la perdita di potere d’acquisto.

Il paradosso redistributivo: chi ha versato di più può ricevere meno

Il quadro delineato dalla Cgil e dallo Spi evidenzia anche un effetto paradossale generato dalla combinazione fra perequazione, fiscalità e maggiorazioni sociali. L’analisi mette a confronto pensioni previdenziali maturate con anni di contributi e trattamenti assistenziali integrati al minimo, mostrando come, in alcune situazioni, chi ha contribuito più a lungo finisca per percepire meno al netto.

È il caso di una pensione maturata di 384,62 euro mensili, che, grazie alle integrazioni al minimo e alle maggiorazioni sociali, arriva a 749,11 euro netti senza trattenute fiscali. Una pensione maturata più elevata, a 692,31 euro mensili, pur beneficiando di una piccola maggiorazione, supera la no tax area e diventa imponibile: le trattenute riducono il netto a 710,47 euro, cioè 38 euro in meno rispetto alla pensione integrata. Allo stesso modo, con l’aumento pensioni 2026, una pensione di 807,69 euro mensili, priva di maggiorazioni, subisce ritenute tali da scendere a 745,97 euro netti, tre euro in meno rispetto all’assegno assistenziale.

Per la Cgil, con l’aumento pensioni 2026, la combinazione tra perequazione e rigidità della normativa fiscale genera dunque un effetto distorsivo che penalizza i pensionati con carriere contributive più consistenti.

Un quadro ancora difficile: per i sindacati l’aumento pensioni 2026 non basta

Secondo Cgil e Spi, il recupero della perdita di potere d’acquisto del biennio inflazionistico resta incompleto. I sindacati invitano per questo i pensionati a partecipare alla mobilitazione del 12 dicembre, chiedendo una revisione del sistema di adeguamento al costo della vita. L’aumento pensioni 2026, nella loro lettura, conferma un trend in cui l’adeguamento formale non corrisponde alla realtà economica vissuta dai pensionati, molti dei quali restano in condizioni di fragilità pur avendo alle spalle anni di contribuzione.

Scritto da: Matteo Respinti

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