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Analisi CGIA di Mestre: evasione fiscale, giorni di lavoro dedicati al fisco, andamento della pressione tributaria negli ultimi trent’anni e confronto con i principali Paesi europei.
Un’analisi pubblicata dall’Ufficio Studi della CGIA di Mestre, sostiene che, se quest’anno i contribuenti italiani hanno impiegato 156 giorni per fare fronte a tutti i loro carichi fiscali, la cosa va attribuita anche alla presenza di almeno 2,5 milioni di evasori. In sostanza, per rispettare le numerosissime scadenze previste dal calendario fiscale, sia le persone fisiche che quelle giuridiche hanno teoricamente lavorato per lo Stato sino all’inizio dello scorso mese di giugno.
Infatti – sempre secondo la CGIA – è solamente a partire dal 6 giugno (per arrivare al prossimo 31 dicembre) che gli Italiani potranno davvero lavorare per sé stessi e per la propria famiglia.
Pertanto, nel nostro Paese – spiegano gli analisti di Mestre – i contribuenti onesti pagano tributi molto alti proprio perché ce ne sono tanti altri che non lo fanno oppure lo fanno solo parzialmente. Secondo gli ultimi dati forniti dall’Istat (e che si riferiscono al 2022), in Italia sono, infatti, circa 2,5 milioni le persone fisiche presenti, che risultano occupate irregolarmente.
Si tratta di individui che lavorano completamente in nero o quasi: di conseguenza, quando operano in qualità di subordinati non sono sottoposti ad alcun contratto nazionale di lavoro, mentre, quando lavorano in proprio, non dispongono, ovviamente, di alcuna partita IVA.
In quanto a valori assoluti, il numero più consistente di tali situazioni viene rilevato in Lombardia con 379.800 unità. Seguono i 319.400 casi stimati nel Lazio e i 270.200 della Campania. Se, invece, ci si sofferma sul tasso di irregolarità – e cioè, sul rapporto tra il numero di occupati irregolari e il totale degli occupati di ciascuna regione – si scopre allora che è la Calabria (con il 17,1%) a mostrare il tasso più elevato. A seguire, vengono la Campania (con il 14,2%), la Sicilia (con il 13,6) e la Puglia (con il 12,6%). La media nazionale è quella del 9,7%.
Nel ripercorrere poi storicamente l’andamento della pressione fiscale registrato negli ultimi trent’anni, l’Associazione degli artigiani veneti evidenzia come sia stato il 2005 l’anno in cui il carico fiscale è risultato il più contenuto. Presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi e la pressione tributaria sui contribuenti italiani si attestò al 38,9% del PIL. Furono, allora, necessari 142 giorni affinché i cittadini potessero liberarsi dal giogo fiscale: quindi, 14 giorni in meno, rispetto alla scadenza che la CGIA ha calcolato per il 2025.
La punta massima di pressione fiscale fu , invece, toccata nel 2013 durante il governo presieduto da Mario Monti, quando il carico fiscale complessivo raggiunse il 43,4%: record sfavorevole di sempre. Al momento, nel Documento di Economia e Finanza del 2025, si stima, per quest’anno, una pressione fiscale del 42,7%, con un livello in lieve aumento di 0,1 punti percentuali rispetto al dato del 2024.
La CGIA avverte, tuttavia, il lettore a non considerare l’incremento della pressione fiscale – registrato dal 2023 ad oggi – come il frutto di aumenti delle imposte dirette, quanto come la risultante di una “pluralità di novità legislative di natura economica introdotte a livello politico”, quali la decontribuzione a favore dei redditi da lavoro dipendente (resa più incisiva nel 2024) e l’accorpamento dei primi due scaglioni di reddito dell’Irpef.
Nel 2025, infatti, allo scopo di ridurre il “cuneo fiscale” e a compensazione della decontribuzione, sono state aumentate le detrazioni Irpef ed è previsto un bonus (esente Irpef) per i redditi da lavoro dipendente sino a 20.000 euro. Inoltre, il buon andamento delle entrate fiscali nel 2024 è stato determinato anche da fattori economici che hanno condizionato la crescita delle imposte sostitutive relative ai redditi da capitale.
E – aggiunge ancora la CGIA – non va nemmeno dimenticata la crescita registrata dalle retribuzioni, dovuta ai rinnovi contrattuali, alla corresponsione degli arretrati nel pubblico impiego e all’aumento del numero di occupati che hanno comportato, per l’Irpef e per i contributi previdenziali, un rialzo positivo.
Al contrario, l’incidenza sulla pressione fiscale dovuta al vero e proprio inasprimento tributario è stata davvero molto scarsa. Ed a questo proposito – tra i principali aggravi fiscali introdotti dal Governo in carica – gli analisti mestrini ricordano l’incremento della tassazione sui tabacchi, dell’IVA su alcuni prodotti per l’infanzia/igiene femminile e dell’imposta sostitutiva della rivalutazione dei terreni e delle partecipazioni per l’anno 2024, oltre alla riduzione delle detrazioni delle spese per le ristrutturazioni edilizie e il risparmio energetico per l’anno 2025.
Infine, a livello comunitario, nel 2024, è stata la Danimarca (con il 45,4%) a registrare la pressione fiscale più alta, davanti alla Francia (con il 45,2%). L’Italia si è collocata al sesto posto con un tasso del 42,6% del PIL, che corrisponde ad 1,8 punti in più rispetto a quello della Germania, ma risulta pur sempre meno gravoso (di 2,6 punti) rispetto a quello francese. La media UE è, comunque, inferiore a quella italiana di 2,2 punti.
Scritto da: Ferruccio Bovio
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