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Le stime dell’Ufficio Studi di Mestre: gli effetti dell’aliquota al 15% di Trump tra mancate esportazioni, svalutazione del dollaro e margini ridotti per le imprese italiane.
Secondo l’Ufficio Studi della CGIA di Mestre, l’applicazione dell’aliquota al 15 %, decisa in Scozia tra i presidenti Trump e von der Leyen, è destinata a provocare all’Italia un danno economico che, almeno nel breve termine, dovrebbe oscillare tra i 14 ed i 15 miliardi di euro annui. Un importo che, a grandi linee, corrisponde al costo che il nostro Paese dovrà sostenere per realizzare la più grande opera pubblica nazionale di sempre: e cioè, il ponte sullo Stretto di Messina.
Un danno, quello causato dalle politiche protezionistiche di Donald Trump, che – nella stima della CGIA – comprende sia gli effetti diretti (ossia, le mancate esportazioni), che quelli indiretti (come la riduzione del margine di profitto delle imprese che continueranno a vendere nel mercato USA, il costo delle misure di sostegno al reddito degli addetti italiani che perderanno il posto di lavoro ed il trasferimento delle imprese verso gli USA).
Oltre a queste due tipologie di fattori, gli analisti di Mestre hanno preso in considerazione anche l’attuale svalutazione del dollaro nei confronti dell’euro. Tuttavia, nonostante nel 2024 si sia registrata, rispetto al 2023, una contrazione delle vendite verso gli USA del 3,6 % (equivalenti, in termini monetari, a -2,4 miliardi di euro), l’Italia mantiene, comunque, una forte vocazione all’export verso gli Stati Uniti che, non a caso, l’anno scorso, ha toccato i 64,7 miliardi.
Più in dettaglio, gli effetti dei dazi al 15 %, dovranno confrontarsi anche con due interrogativi che l’Associazione degli artigiani formula nelle seguenti forme:
“I consumatori e le imprese statunitensi sostituiranno i beni finali e intermedi italiani con quelli autoctoni o di altri Paesi, oppure continueranno ad acquistare prodotti Made in Italy?”
“A seguito delle nuove barriere doganali, le imprese esportatrici italiane riusciranno a non aumentare i prezzi di vendita negli USA, rinunciando a una parte dei margini di profitto?”
E si tratta di domande alle quali non è certo facile rispondere: anche se, a far ben sperare, sono le osservazioni della Banca d’Italia, la quale ricorda come il 43 % delle nostre esportazioni verso gli Stati Uniti siano costituite da prodotti di qualità alta e un altro 49 % di qualità media.
Di conseguenza, il 92 per cento delle nostre merci acquistate Oltreoceano sono di alta gamma e, quindi, verosimilmente destinate a clienti (persone fisiche o imprese) ad elevato reddito e che, pertanto, potrebbero anche rimanere indifferenti di fronte ad un aumento dei prezzi dovuto all’introduzione di nuove barriere doganali.
In merito, invece, al secondo interrogativo posto dalla CGIA, i ricercatori di Bankitalia segnalano che il potenziale calo della domanda statunitense legato all’incremento dei prezzi dei prodotti finali potrebbe essere assorbito dalle nostre imprese proprio attraverso una contrazione dei propri margini di profitto.
Ed a questo proposito, va segnalato come le aziende italiane che esportano negli USA presentino una incidenza delle vendite in questo mercato che non supera il 5,5 % del loro fatturato totale, mentre il margine operativo lordo è mediamente pari al 10 % dei ricavi. Ciò significa che si tratta di imprese poco esposte verso il mercato statunitense e che, quindi, una sua eventuale restrizione potrebbe incidere su di esse solo fino ad un certo punto.
Fermo però restando che – conclude sempre la CGIA – nel caso in cui le politiche protezionistiche di Trump dovessero provocare un’ulteriore svalutazione del dollaro, andando così ad innescare delle contromisure in grado di provocare una caduta della domanda globale e dei mercati finanziari, allora i calcoli andrebbero, ovviamente, rifatti del tutto.
Scritto da: Ferruccio Bovio
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